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Il mistero del processo

L'interrogativo di Salvatore Satta oggi è attuale più che mai


Ho appena finito di leggere questo libro, Il mistero del processo , tanto breve quanto denso, di uno dei più grandi e profondi giuristi del Novecento (lo si è scoperto soprattutto dopo la sua morte); una raccolta di saggi accomunati da un tema centrale in tutte le epoche: il processo.

Per Salvatore Satta il processo è la chiave di volta del diritto, e il suo "mistero" è da indagare  per comprenderlo nella sua essenza e nel suo significato.

"Che cosa è il processo? La domanda è tanto impegnativa quanto trascurata, specialmente oggi. Il processo richiede una definizione profonda, che ne colga le implicazioni; non basta studiarlo tecnicamente nei suoi meccanismi, occorre anche chiedersi da dove origini, a quali bisogni corrisponda.

Nonostante la difficoltà, una risposta bisogna pur darla, da parte dei giuristi "se non vogliamo concludere la nostra vita di studiosi con l'amara impressione di aver perduto il nostro tempo intorno a un vano fantasma, a un'ombra che abbiamo trattato come una cosa salda". 

L'Autore si pone questi interrogativi non in astratto, ma in concreto, entrando subito, nell'esordio del saggio che intitola il libro, in medias res, nel vivo delle cose: ci troviamo immersi, in termini vivaci e drammatici, in un episodio della Rivoluzione Francese, accaduto quando, nel 1792, il tribunale rivoluzionario doveva giudicare il maggiore Bachmann, ed una folla in tumulto irrompe nell'aula cercando di linciarlo (come aveva fatto poco prima, con altri imputati detenuti in attesa di giudizio).

A quel punto, il presidente della Corte riesce a fermare con un gesto sicuro e con poche parole quei facinorosi, semplicemente intimandogli "di rispettare la legge e l'accusato che è sotto la sua spada". In altre parole, gli fa capire che avrebbe lui fatto "giustizia", allo stesso modo loro, cioè condannandolo a morte per ghigliottina, ma rispettando le forme, garantendo una parvenza di legalità.
Così, i rivoltosi comprendono che "l'opera che essi compiono là in basso.... questi borghesi in mantello nero la perfezionano sui loro seggi".

In questo modo, il palazzo di giustizia si tramuta facilmente nel palazzo delle condanne: se questi giudici dicono che l'avvocato è sotto la spada della giustizia, "essi vogliono dire soltanto, e sono subito intesi: <<lasciatelo stare, ci pensiamo noi ad ammazzarlo>>".

Ma il giurista non si ferma a questa constatazione, e si chiede: se questi qui, questi assassini, avrebbero potuto ammazzarlo direttamente, cioè se il risultato è comunque lo stesso, perché è necessario percorrere la via più lunga? Perché quei rivoltosi, o rivoluzionari (tra l'altro Satta ben chiarisce la differenza tra i due termini) hanno sentito il bisogno di celebrare un processo? Di farsi scudo della legittimità di un'uccisione, in un epoca dove si badava al sodo e si andava per le spicce, in una fase rivoluzionaria che non richiedeva certo il rispetto di determinate formalità?

La risposta di Satta è tanto fine quanto articolata. Partendo dall'ovvia premessa che "questa gente vuole uccidere attraverso un processo", giunge alla meno ovvia constatazione che essi vogliono il processo, perchè non possono farne a meno: nè culturalmente nè, soprattutto, spiritualmente. Il processo è un'esigenza innata dell'uomo. Forse perché (ma questo Satta non lo dice esplicitamente) risponde a un'insopprimibile anelito verso la giustizia.

Esso è necessario, in tutte le epoche, perchè è il momento in cui, in concreto, si perviene a un impegnativo e inesorabile giudizio di condanna che altrimenti, in base alle leggi e alle regole prestabilite, rimarrebbe generale e astratto; Satta ci dice che il giudice no uccide, cioè pronuncia una condanna a morte, soltanto perchè la legge glielo impone: piuttosto il processo, a ben vedere, "si pone con una sua totale autonomia di fronte alla legge e al comando", sicchè "chi uccide non è il legislatore, ma il giudice".

Anche quando, in certi momenti storici (come quello della Rivoluzione francese da cui l'Autore trae le sue premesse) il processo sembra ridotto "a una pura farsa, a una parodia di giustizia", rimane, dunque, sempre qualcosa di irrinunciabile, da espletare. Una porta attraverso cui dover passare per raggiungere la giustizia, o la sua parvenza. 

Eppure in tutte le epoche ci sono sempre stati i tentativi di eluderlo, di neutralizzarlo, di superarlo: ad esempio, con la considerazione: "se si sa che sono colpevoli, che bisogno c'è di testimoni?" Dunque perché celebrarlo, e farlo durare tanto, se si conosce già la conclusione, anzi la si auspica, si ha sete di arrivare alla condanna ed all'esecuzione?

Il processo, come istituto giuridico, ha sempre resistito a tutti questi attacchi, ed ha mantenuto la sua identità e fisionomia. "Gli dei hanno sete, ma il processo è pur sempre uno schermo, sottile quanto si vuole, che impedisce di raggiungere il liquido sanguinoso". Come a dire: un modo per cercare di diminuire la responsabilità della coscienza, individuale da parte dei giudici, e sociale da parte della comunità, quando si irrogano le condanne.

Ma il processo correttamente inteso non è solo un modo per sfuggire alla vigliaccheria, un espediente per anestetizzare la coscienza. C'erano e ci saranno sempre, in ogni tempo, "giudici che impediscono al processo di morire", che non si piegano ai dettami della pubblica opinione, che non si appiattiscono comodamente e pigramente sulle posizioni dell'accusa, ma che pretendono di giudicare imparzialmente e a fondo i casi loro sottoposti. E così facendo celebrano un vero giudizio, anche quando non dovessero raggiungere la vera giustizia. 

L'Autore, però, non è soddisfatto di questa pur importante prima conclusione: si interroga, ora, sullo scopo del processo, per arrivare ad affermare che il processo come tale, semplicemente, non ha uno scopo (anche se naturalmente ne hanno uno le persone che in esso agiscono e pongono in essere gli atti).  L'affermazione sembra sconcertante, ma Satta si preoccupa di spiegarla nella sua logica, fornendo una meravigliosa lezione di teoria e filosofia del diritto che sarebbe vano cercare qui di riassumere.

Mi limito a riportare i passaggi che ho ritenuto più esemplari, dando diretta espressione alla voce dell'Autore per far intravedere la potenza del suo ragionamento giuridico e quanto siano illuminanti le sue osservazioni.

"Non si dica, per carità, che lo scopo è l'attuazione della legge, o la difesa del diritto soggettivo, o la punizione del reo, e nemmeno la giustizia o la ricerca della verità: se ciò fosse vero sarebbe assolutamente incomprensibile la sentenza ingiusta, e la stessa forza del giudicato, che copre, assai più della terra, gli errori dei giudici".

In un solo colpo Satta spazza via tutte le tradizionali argomentazioni: lo scopo del processo non è dare attuazione nel concreto al comando astratto posto dalla legge, nè difendere i diritti dei soggetti, nè addivenire alla punizione del reo, e tantomeno aspirare di raggiungere la giustizia e la verità; "tutti questi possono essere e sono gli scopi del legislatore, della parte o del pubblico ministero, ma non lo scopo del processo", perchè, se così fosse, dovrebbero essere previsti rimedi radicali contro le sentenze ingiuste, e non sarebbe possibile arrivare ad una sentenza definitiva, passata in giudicato, la quale, giusta o sbagliata che sia, non può più essere posta in discussione, e copre gli errori dei giudici di tutti i gradi di giudizio. Infatti, dire che il processo è ricerca della verità si pone in contrasto con la definitività delle sentenze. 

Com'è noto, l'istituto della revisione è insufficiente a risolvere tutti i casi di sentenze ingiuste.
Anzi, arriva a dire polemicamente l'autore, "la sentenza di assoluzione è la confessione di un errore giudiziario", evidentemente commesso da chi, in precedenza, aveva formulato una proposizione accusatoria che poi non ha trovato riscontro nel giudizio. Vicende amare e ben note, da Tortora in poi, ed anche molto prima di lui; in tutti i tempi vi sono stati processi infausti, o che non avrebbero dovuto essere addirittura celebrati.

Dobbiamo constatare, quindi, insieme a Satta, che "veramente processo e giudizio sono atti senza scopo, i soli atti della vita che non hanno uno scopo". Paradosso? si chiede l'autore, per rispondere subito dopo: "No, non è un paradosso, è un mistero, il mistero del processo, il mistero della vita".

Ecco, è in questa apertura del giurista alla dimensione della vita - che non si spiega, razionalmente, proprio nella sua origine e nelle sue implicazioni profonde, al di là dei meccanismi tecnici -  che si coglie tutta la forza del messaggio di Satta: se la vita è un tumultuoso susseguirsi di azioni ("belle o brutte, buone e cattive, sante o diaboliche", come è tipico della natura umana) allora il processo segna una battuta di arresto dell'azione, la quale viene sottoposta ad un giudizio (per quanto giusto o ingiusto esso sia). 
Come a dire: un momento di riflessione, ritualizzato, come una celebrazione, quasi a voler richiedere la massima ponderazione nella fase del giudizio, per pervenire ad un esito possibilmente giusto; rammentando che sarà un esito attivo, destinato a incidere, e drammaticamente, nel mondo reale e sulla situazione giuridica e personale dei soggetti coinvolti.

Satta, a tal proposito, per ammonirci sulla potenza del giudizio, ci ricorda con vigore che punire è umano, ma giudicare è divino: "verrà Uno, non per punire, non per premiare, ma per giudicare"; giudicare, non punire: perchè "punire può chiunque, il punire non è che azione, brutale azione". 

Insomma, punire è facile: basta vendicarsi, applicare la legge del taglione "occhio per occhio dente per dente", ritorcersi e sopraffare, secondo l'efficace legge della violenza che chiama violenza; giudicare no, giudicare è ben più difficile, anche quando, come nella rivoluzione francese, si usa il processo per mascherare un'uccisione già altrimenti decisa.

Satta ammonisce: se l'accusato venisse assolto, il magistrato inquirente dovrebbe rispondere per aver avviato un procedimento inutile. Oppure, se il giudice ha condannato ingiustamente, limitandosi ad avallare e ratificare l'accusa formulata nella contestazione, avrebbe compiuto un atto rivoluzionario, ma non giuridico, bensì al di fuori del diritto.

Ed allora, a questo punto, la riflessione dell'autore ci accompagna sino ad un punto di vertigine, ove la prospettiva alla quale siamo tradizionalmente abituati si capovolge: non vale più soltanto il noto canone nulla poena sine judicio, ma è vero il principio opposto, il nullum judicium sine poena, perchè , a ben vedere, la pena è connaturata alla necessità del giudizio, ed anzi "tutta la pena è nel giudizio (si pensi al termine giustiziare)..."; si coglie anche l'amara ironia di Satta in proposito, quando rammenta che Chiovenda aveva parlato di "processo come fonte autonoma di beni", e gli oppone la concezione secondo cui "si potrebbe con più realismo parlare del processo come fonte autonoma di mali".

Difatti, per Satta nell'esaminare i fenomeni del diritto non si può prescindere da quell'originario "nucleo di vendetta" dal quale deriva tutto il sistema della giustizia e i suoi meccanismi applicativi. 
Il diritto nasce per l'esigenza di riparare i torti, ristabilire situazioni violate da illeciti o da delitti, e punire coloro che sono riconosciuti colpevoli. Una elementare verità spesso dimenticata.

Sicchè - continua Satta - "il vero innocente non è colui che viene assolto, bensì colui che passa nella vita senza giudizio". I lettori possono agevolmente cogliere quanto è vera questa affermazione, pensando a tutti i casi in cui una vicenda giudiziaria vale a rovinare una carriera, una reputazione, una vita, ed un semplice avviso di garanzia è sufficiente a ipotizzare una colpevolezza, tanto apparente e superficialmente ritenuta quanto riportata lampante da certi mezzi di informazione in grado di influenzare la pubblica opinione.

Quindi, il vero innocente è davvero colui che nella sua vita non ha mai affrontato un processo, non ha mai dovuto subire un'accusa, non è mai dovuto entrare in un'aula di Tribunale o in un ufficio di Procura. Chi ci è passato, come purtroppo sappiamo, non sarà mai considerato veramente innocente, neppure se assolto, neppure se vittorioso con formula piena nel processo.

Il cattolico Satta arriva, su questa scia, a riformulare e un pensiero di Blaise Pascal così acuto che spesso viene tralasciato dalla stessa Chiesa, pur costituendo il nucleo centrale della passione di Cristo: Gesù "non ha voluto essere ucciso senza le forme di giustizia, perchè è ben più ignominioso morire attraverso un giudizio che per una sedizione ingiusta".

Avrebbe potuto essere ucciso senza processo, invece ha voluto patire anche questa pena, anzi arrivare alla morte proprio dopo aver subito una ingiusta condanna, basata sulle false accuse dei sacerdoti del Sinedrio, favorita dalla folla manipolata che chiedeva la liberazione di Barabba, e resa,  infine, giuridicamente possibile, ossia legittima, dall'ignavia del giudice Ponzio Pilato, il quale, avendo il potere di farlo, ben avrebbe dovuto assolverlo, essendosi egli stesso reso conto della sua innocenza.

Invece Pilato preferisce la soluzione di comodo, e si trincera dietro l'irrisolvibile domanda "Quid est veritas?" cos'è la verità?  Per Satta, quella domanda di Pilato si risolve perfettamente nell'altra: Quid est processus? Cos'è il processo? Se in casi del genere si conclude con la condanna a morte di un innocente, ritenuto reo di essersi proclamato Re dei Giudei?

Mi sto accorgendo che il mio Kindle mi dice, seguendo il testo, che sono arrivato, in questa esposizione, appena al 16% dell'opera; e ho già scritto un post davvero lungo, per il quale ringrazio i lettori che sono arrivati fin qui.

Per i curiosi, aggiungo che il libro prosegue a indagare il mistero del processo, esaminandolo dalle più varie e fertili angolazioni, così partendo dalle radici del diritto romano, ed analizzando criticamente il suo aspro carattere di lotta tra le parti, di meccanismo dialettico che cerca di coinvolgere, influenzare, persuadere, trascinare il giudice, il quale invece, per preservare l'essenza del processo, e garantire l'essenza di una giustizia giusta, deve mantenersi imparziale.

"Chi giudica in casa propria non compie un giudizio", vi è "questa elementare esigenza, che il giudizio sia reso da un terzo".  Anche qui, Satta parte da una considerazione apparentemente banale (o meglio, banalizzata dalla trita ripetizione di una formula di cui si è perduto il significato) per richiamare il fatto che "terzo è colui che non è parte" e ciò implica che egli deve essere estraneo a quella "molteplicità di soggetti ai quali il processo giova o nuoce"

Una concezione, è evidente, di terzietà e imparzialità ben diversa, e molto più ampia, di quella che si limita a richiedere la mancanza di rapporti di cointeressenza con le parti, o di interesse nello specifico affare oggetto della causa... Il giudice, infatti, pur superando questo esame (condotto secondo le regole "tecniche" degli istituti dell'astensione e della ricusazione), ben potrebbe subire l'influenza, e dunque ricercare le conseguenze, che la propria decisione comporterà; e in tal caso non sarebbe terzo e imparziale rispetto alla vicenda da decidere. Non solo la persona giudicata, ma l'intera società ha diritto ad avere giudici terzi e imparziali secondo il significato che abbiamo delineato.

Il cerchio si chiude: quel processo rivoluzionario dal quale eravamo partiti non era, in realtà, un processo, perchè è stato uno dei tanti giudizi resi dai vincitori sui vinti, da una parte contro un'altra parte; dunque un fenomeno storico, ma non un processo qualificabile come tale da parte del giurista.

Il giurista - ci avverte Satta - per non isolarsi dalla realtà e dalla concretezza del mondo e delle azioni umane, deve tener presente sempre che gli uomini "non chiedono che di adagiare la propria felicità sull'altrui sofferenza": di qui tutte le ingiustizie, le prevaricazioni, gli sfruttamenti. L'unico modo valido per reagirvi è tenere presente che il momento del giudizio, espresso dal processo, è l'unica cosa che può preservare la luce della giustizia, altrimenti esposta come una fiamma ai venti della pubblica opinione e delle sensazioni. 

Il giudice deve resistere a tutte le pressioni operate dalla forza del potere. Quello schermo, sottile ma non fragile, di cui Satta parlava, se viene superato fisicamente consente il linciaggio; ma se viene superato psicologicamente, perché il giudice non è terzo e soggiace alle pressioni, porterà allo stesso esito infausto, e sarà un simulacro di processo, ma non compirà un giudizio.

Allora, quando la giustizia arriva tardi e male, quando la verità che si raggiunge è incerta e lascia insoddisfatti, quando i torti rimangono impuniti ed anzi i prevaricatori emergono rafforzati, non è per colpa del processo in sé, bensì a causa di una cattiva applicazione delle leggi che lo regolano, e, prima ancora, di aver trascurato quelle esigenze di giustizia e quei principi di verità che Satta ci ha evidenziato con voce chiara e perenne.




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